“Il cibo come legante per collegarsi al quartiere, per uscire dal guscio e per trovare, insieme, il proprio spazio.”

“Il cibo come legante per collegarsi al quartiere, per uscire dal guscio e per trovare, insieme, il proprio spazio.”

A Monterosso la cucina unisce donne di diverse etnie e apre a nuove possibilità

Il racconto di Caterina

 

 

Ciao Caterina, hai conosciuto attivamente la Rete di Quartiere di Monterosso, in che modo?
Sì, sono stata in rete con l’associazione Estro&Passioni.

Quali sono state le vostre attività?
Diversificate. Ogni componente ha seguito le sue peculiarità ed interessi. Io ad esempio, attraverso la cucina, che è la mia passione, mi sono occupata del “sociale”!

Cucina e sociale? Spiegaci meglio.
Con l’associazione ho portato avanti “Ethnicway Monterosso”, un progetto che ha coinvolto donne di diversa etnia attraverso la cucina e il cibo!
È un’idea nata parlando con alcune donne del quartiere di varie nazionalità mentre aspettavamo che i nostri figli uscissero da scuola.
Ho notato che tutte loro avevano bisogno di un contatto in più col territorio, c’era questa necessità di uscire dalla dimensione familiare e di trovare un loro momento.
Io ho la passione per la cucina – è il mio lavoro – ed è una passione che accomuna anche queste donne. Così ho pensato che proprio la cucina potesse essere un’ottima soluzione per portarle fuori da quel torpore. Diciamo che leggendo tra le righe mi sono detta: “sicuramente il cibo è una cosa sulla quale non hanno timori. Non devono imparare nulla, né studiare qualcosa, è una cosa che sanno già fare e dove riescono a dare il meglio”.

Una bella intuizione! Come ti sei mossa per realizzare il tutto?
Prima di tutto ho fatto in modo di conoscere ogni donna singolarmente. Mi sono fatta aiutare da una persona del portierato Aler, che è molto presente sul quartiere da anni.
All’inizio non è stato semplice. Ci sono spesso situazioni fragili e difficoltà, ci sono quelle che sono “libere di” e altre che non lo sono, chi non conosce la lingua e così via. Detto questo, ognuna di loro si è dimostrata accogliente, ma bisogna fare un lavoro di convincimento prima che materialmente ti dicano “ok ci sto!” Bisogna costruire un rapporto di fiducia e, anche dopo che lo hai costruito, è necessario continuare a coltivarlo.
Abbiamo iniziato lavorando in gruppi della stessa etnia. Bisogna avere un po’ di pazienza perché hanno i propri timori nei confronti di altre nazionalità; non tutte eh, però va bene individuare il modo in cui sono più tranquille e a loro agio. Poi, con più confidenza si mettono insieme.
L’idea è stata di trovare nella cucina un legante per collegarsi al quartiere, per uscire dal guscio e per trovare, insieme, la propria indipendenza.
Il cibo poi va sempre bene, fa tutti contenti. In realtà si scopre anche che abbiamo dei piatti che sono molto simili tra il nord Africa, l’Est Europa, l’Italia; semplicemente vengono conditi con spezie diverse.

Quali sono stati i passaggi successivi?
Dopo il “reclutamento”, il laboratorio di cucina è nato e i primi risultati si sono visti a settembre 2019 con una specie di passeggiata gastronomica. Una cena itinerante con quattro punti di sosta, in ognuno dei quali c’erano due o tre nazionalità e venivano serviti i piatti tipici di quelle etnie. I punti erano distribuiti nei luoghi più conosciuti di Monterosso: il ritrovo era in piazza Pacati, dopodiché si andava alla Casa del Quartiere, al Centro per Tutte le Età, all’oratorio e poi, alla fine, Casa Sara.
È stato un evento che ha riscosso successo, tanti son venuti anche da fuori quartiere.

Davvero una bella soddisfazione! Ci sono stati sviluppi dopo?
Sì. Dopo l’evento di settembre alcune di loro hanno preparato delle cene, hanno fatto dei catering, abbiamo partecipato al mercato agricolo; insomma, le cose hanno incominciato a muoversi.
Quello che mi piacerebbe è accompagnare il gruppo ad una attività lavorativa in cui sono tutte insieme. Mi rendo conto però che è un percorso lungo.
L’importante per queste donne è capire che hanno delle potenzialità, anche lavorative. Hanno tutte voglia di fare e di dimostrare, probabilmente più a loro stesse che agli altri, che sono indipendenti, che riescono a vivere in questo posto che non è la loro nazione e che spesso non hanno scelto.
Inoltre, anche se fatta qualche eccezione, vivono in questa situazione di casalinghe dove il marito lavora e loro si occupano dei figli. Però, ecco, anche uscire di casa per poi ritornare dopo aver guadagnato qualcosa è una soddisfazione; loro sono contentissime ed è una soddisfazione anche per i figli che vedono le loro mamme protagoniste di qualcosa. 

Come si è inserita invece l’associazione in questo progetto? In cosa vi è stata utile?
Il progetto si è concretizzato grazie all’esistenza di un’associazione. È nata come risposta alle nostre esigenze. Serviva una forma giuridica per poter permettere a più persone di incontrarsi, nel tempo e per poter accedere ad eventuali finanziamenti o comunque per poter, ad esempio affittare uno spazio. Insomma, una forma che potesse permettere una serie di ipotetici sviluppi successivi.
Serviva per dare una forma effettiva e l’associazione è stata la soluzione migliore.

Non avendo un vostro spazio dove si svolgevano le attività?
Siamo sempre state ospiti di altri luoghi, per esempio il Centro Terza Età che ha la cucina, o Casa Sara che ha un’altra bella cucina professionale.

C’è quindi una qualche forma di collaborazione con il quartiere…
Diciamo che questo progetto ha sempre mantenuto la collaborazione con altre realtà del quartiere e con la Rete di quartiere.
La collaborazione è fondamentale perché altrimenti fare le cose singolarmente non ha molto senso. Il fatto di condividere, ad esempio, con la Rete di Quartiere fa sì che arrivino suggerimenti, proposte, anche commenti su determinate scelte e fa sì che l’obiettivo venga centrato per bene. Io ho la mia visione, ma anche vederla trasversalmente porta sempre il suo contributo.

Mi sembra di leggere tra le righe che tu sia molto proattiva, secondo te perché è importante partecipare?
È importante perché non siamo soli, se uno rimane chiuso nel suo guscio resta fermo con le sue idee e con i suoi pregiudizi.
Secondo me è bello anche sentire e conoscere culture diverse o anche la nostra cultura! Perché il nostro vicino di casa magari non sai che fa delle cose e che può anche aiutarti.
Siamo un po’ tutti rinchiusi nel nostro guscio. Ad esempio, lo vedo nei confronti delle donne del laboratorio; spesso perdi la parte del “dimmi un po’ come mai sei arrivata qua” perché magari non sono poi così contente di essere qui, ma sono costrette. Ecco, manca questo dialogo, come manca con il vicino di casa italiano, non è che sia poi così diversa la cosa.

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